Strappare fuori dai bordi

A proposito della serie di Zerocalcare

Ho conosciuto Zerocalcare come autore dopo aver visto le pillole animate di Rebibbia Quarantine andate in onda durante il lockdown a Propaganda Live su La7. Avevo intravisto qualcosa di suo anche prima, sapevo che si era piazzato secondo allo Strega nel 2015 e mi era capitato di visitare una mostra a lui dedicata al Maxxi nel 2018, ma non avevo mai affrontato una sua graphic novel, come si ama definire oggi una lunga storia a fumetti, soprattutto perché non sono amante del genere. Con pochissime eccezioni (come Robert Crumb) nel campo dei comics ho sempre preferito le strisce o le tavole brevi.

In Zerocalcare avevo rintracciato l’atmosfera e il segno grafico dei tempi dei centri sociali (come il Macchia Nera di Pisa) e un taglio umoristico apprezzabile, per i miei gusti, ma non avevo approfondito. Finché, il marzo scorso, non mi è capitato di lavorare proprio alla serie uscita di recente su Netflix e questo me l’ha fatto conoscere molto meglio – non di persona (l’ho visto solo da lontano alla presentazione della serie fatta alla Manifattura Tabacchi a Firenze), ma come autore.

Sono un cartonanimataro di mestiere da parecchi anni e stavolta ero stato chiamato dallo studio di animazione Doghead Animation a fare la supervisione al color nella realizzazione di SLIB – acronimo di produzione di Strappare Lungo I Bordi. Per circa tre mesi avrei controllato 12 coloristi – anzi, perlopiù coloriste, vista la felice abbondanza di quote rosa. Questo per dire che la serie l’ho vista, anzi, vissuta da vicino, e la storia che si dipana in quel lungometraggio diviso in sei parti (perché di questo si tratta) l’ho appresa poco dopo il mio ingresso in produzione, con la visione dei videoboard.

Una bella esperienza, la produzione era molto ben organizzata benché i tempi fossero strettissimi: del resto realizzare un’ora e mezzo d’animazione, con tutti quei personaggi e tutte quelle situazioni diverse, in meno di un anno è quasi un record. Credo che fra tutti ci abbiano lavorato circa 200 persone. Quindi bravi, è venuta fuori una bella serie, come standard qualitativo: per la grafica, l’animazione, la cura dei dettagli, le musiche, la sonorizzazione – tutto. Certo: per me, la ruvida incisività del tratto delle tavole disegnate si è perduta ma sarebbe stato troppo complicato (lungo e costoso) cercare di mantenerla in animazione, anche volendo. Perciò non è questo il problema.

Perché, c’è qualche problema? Forse la parlata romanesca di Zero? Macché, anzi, Michele Rech (nome anagrafico di Zerocalcare, nda) è bravissimo e perfetto nei molteplici ruoli che interpreta. No. Il problema, dal mio punto di vista, è nella storia.

La serie parte col botto: le prime due puntate sono una cornucopia di gag esilaranti ben integrate nel tessuto narrativo, non sembrano vignette avulse con un tenue legame col procedere della storia, cosa che invece succede sempre più nel seguito. A partire dal terzo episodio la serie comincia a scricchiolare. Non crolla ma si crepa sempre di più. Gag comiche e intelligenti come quelle del garbuglio di cavi elettrici che vive di vita propria sono quasi gratuite nel contesto narrativo; dico quasi perché un addentellato resta pur sempre.

Il vero problema però arriva alla fine, proprio nell’ultimo episodio. Anche se non si tratta di un giallo, non sciuperò la serie a chi non ne ha ancora concluso la visione, e mi limiterò a dire che quest’episodio è verboso e didascalico. Qualcuno dirà che è anche il tema dell’episodio (che non dirò) che lo richiede ma non sono affatto d’accordo. Dirò di più: mi ha ricordato il catechismo. Un catechismo laico e perfino condivisibile, ma che ci sta a fare qui?

Questo finale ospita quel che oggi viene definito uno spiegone che è un quasi-monologo ininterrotto, un calderone alla cui superficie affiorano qua e là polpette psico-socio-sentimentali. Mi verrebbe da dire pietistiche ma sarebbe troppo, sarebbe ingiusto. Ecco, come se, sul finale, invece che lungo questa storia fosse andata fuori dai bordi.

Questa mia opinione sulla serie me l’ero fatta fin dall’inizio, dai primi giorni in cui ero entrato nella produzione e tale è rimasta: e non avrebbe potuto essere altrimenti.

In definitiva, che posso dire? Che è una bella serie e mi è piaciuta abbastanza non solo per la qualità tecnico artistica della produzione; che è divertente e intelligente; che dice cose che in buona misura val la pena che vengano dette; che riesce a farlo senza troppa retorica con un linguaggio in grado di agganciare dai boomers (come me) ai millenials; non sono pochi, come pregi. E poi – e soprattutto – che è un prodotto non per bambini. Eh sì, signore & signori, sappiate che in Italia cartoni animati di regola significa bambini – specie se c’è di mezzo RAI. Ne so qualcosa, ve lo assicuro.

Ci voleva Netflix per portare sullo schermo una serie per adulti.

Finalmente.