Univerphone

Una serie che avrebbe potuto essere e che non fu

Dodici anni fa, quando ancora esisteva Toposodo, lo studio d’animazione e minuscolo produttore indipendente con base all’ultimo piano di un edificio ottocentesco scricchiolante in via Fucini 49, a Pisa, era appena nato un nuovo progetto. Avevo avuto un’idea e poi, assieme al mio socio Fabrizio Bondi, avevamo cominciato a svilupparla con la collaborazione degli altri ragazzi dello studio.

Sbocciò così Avventura nell’Univerphone, la storia in 26 episodi di Ghab, un ragazzino figlio di un geniale programmatore di games, che finisce per errore dentro al cellulare della sorella: e qui si trova nell’Univerphone, il mondo dello smartphone, dove incontra i personaggi dei giochi, delle app, dei servizi, l’antivirus che gli dà la caccia – poiché lui è un estraneo – e così via, alla ricerca affannosa della strada per tornare nel mondo fisico.

L’idea venne accettata al Cartoon Forum di quell’anno, il 2010, che si sarebbe tenuto in settembre e così in pochi mesi preparammo tutto il materiale – testi, disegni (quello che in gergo cartonanimataro si chiama bibbia letteraria e bobbia grafica) e un breve teaser, ossia un frammento d’animazione atto a far salivare produttori e broadcaster ai quali sarebbe stato presentato in quel consesso esclusivo (e costoso).

Quell’anno, la kermesse si sarebbe tenuta a Sopron, in Ungheria. Siccome per fare queste presentazioni veniva raccomandato di usare tutti i trucchi possibili per attirare l’attenzione dei presenti – trasformandosi in qualcosa di assai vicino a un imbonitore da fiera – mi venne in mente di assoldare una banda di ottoni locale, nella tradizione ungherese delle bande di quel tipo, per far suonare loro una versione arrangiata della musica che avevo composto per il progetto della serie. Così, dopo qualche ricerca in rete contattai The Brass Brothers Quintet (Réztestvérek Rézfúvóskvintett), che accettarono di partecipare.

Arrivammo a Sopron dopo un viaggio di notte in treno in cui io non avevo chiuso occhio. Oltre a Fabrizio e me c’era Mirko Paolucci, all’epoca jolly factotum dello studio, che per l’occasione, oltre che a organizzare le cose, ebbe l’incarico di fare da direttore del quintetto. La sera ci trovammo nel seminterrato di una villetta nella periferia di Sopron, abitazione di uno dei Brass Brothers, dove provammo insieme a loro la mia presentazione, durante la quale – oltre a illustrare il progetto parlando in Inglese – avrei suonato un rullante, per rendere l’effetto imbonitore ancora più efficace.

L’idea della banda era piaciuta molto agli organizzatori, che ce la chiesero in prestito anche per allietare uno dei pranzi di tutti noi cartonanimatari, che si teneva quotidianamente in un tendone in stile festa dell’Unità. In ogni caso, i Brass Brothers sfilarono anche per le strade di Sopron, con in testa Mirko majorette/direttore. Poi ci fu la presentazione, che andò piuttosto bene anche se eravamo penalizzati dalla presenza in contemporanea, in un’altra sala, di un grosso progetto d’animazione molto atteso.

Tornati a casa, il progetto ci pareva così bello che avremmo trovato subito i coproduttori, oltre ad ottenere l’OK da RAI. Invece, un giornmo di pioggia di qualche mese dopo, mi ritrovai accanto al cavallo morente in viale Mazzini, a Roma, appena uscito da una riunione con la dirigenza di RAI Fiction in cui avevo preso picche.

Non riuscivo a capire. Avevamo ottenuto diverse manifestazioni d’interessa da coproduttori internazionali potenziali e in casa, invece, niente. Comunque, RAI disse che si sarebbe potuta fare un’attivazione, che dovrebbe essere un modo di sviluppare meglio un progetto per valutarne più attentamente le potenzialità e correggerne gli eventuali difetti. In realtà, spesso ciò significa allungare un po’ i tempi prima di buttare in un sottoscala tutto quanto. Ed è ciò che è successo ad Avventura nell’Univerphone.

Per tutto il 2011 lavorammo a sviluppare il progetto. Scrissi tutto l’arco narrativo che attraversava i 26 episodi, cinque sceneggiature complete, disegnammo storyboard e montammo animatic (o videoboard) di un episodio completo con tanto di voci registrate a Torino, scrissi una nuova colonna sonora originale e realizzammo un nuovo teaser più completo. Aprimmo perfino un blog sulla produzione: U!

Benché stessimo riscuotendo l’interesse di altri coproduttori, tra i quali uno studio americano con sede a Los Angeles, alla fine della fiera venne deciso da RAI di non proseguire.

E così si spense la fiammella dell’Avventura nell’Univerphone.

Ciò che resta, oggi, di questo progetto – che ha un paio di aspetti vintage ormai, come i due tasti sotto allo schermo del cellulare – a parte qualche video su Youtube o Vimeo e il blog fossile, è il tema della colonna sonora originale, il secondo che avevo scritto, che ho riarrangiato e ribattezzato Incubini e che uscirà come title track sul nuovo album della mia band, i Parafulmini, in cui percuoto pelli e metalli.

E con questo, tanti saluti dall’Univerphone.

mb

 

 

Strappare fuori dai bordi

A proposito della serie di Zerocalcare

Ho conosciuto Zerocalcare come autore dopo aver visto le pillole animate di Rebibbia Quarantine andate in onda durante il lockdown a Propaganda Live su La7. Avevo intravisto qualcosa di suo anche prima, sapevo che si era piazzato secondo allo Strega nel 2015 e mi era capitato di visitare una mostra a lui dedicata al Maxxi nel 2018, ma non avevo mai affrontato una sua graphic novel, come si ama definire oggi una lunga storia a fumetti, soprattutto perché non sono amante del genere. Con pochissime eccezioni (come Robert Crumb) nel campo dei comics ho sempre preferito le strisce o le tavole brevi.

In Zerocalcare avevo rintracciato l’atmosfera e il segno grafico dei tempi dei centri sociali (come il Macchia Nera di Pisa) e un taglio umoristico apprezzabile, per i miei gusti, ma non avevo approfondito. Finché, il marzo scorso, non mi è capitato di lavorare proprio alla serie uscita di recente su Netflix e questo me l’ha fatto conoscere molto meglio – non di persona (l’ho visto solo da lontano alla presentazione della serie fatta alla Manifattura Tabacchi a Firenze), ma come autore.

Sono un cartonanimataro di mestiere da parecchi anni e stavolta ero stato chiamato dallo studio di animazione Doghead Animation a fare la supervisione al color nella realizzazione di SLIB – acronimo di produzione di Strappare Lungo I Bordi. Per circa tre mesi avrei controllato 12 coloristi – anzi, perlopiù coloriste, vista la felice abbondanza di quote rosa. Questo per dire che la serie l’ho vista, anzi, vissuta da vicino, e la storia che si dipana in quel lungometraggio diviso in sei parti (perché di questo si tratta) l’ho appresa poco dopo il mio ingresso in produzione, con la visione dei videoboard.

Una bella esperienza, la produzione era molto ben organizzata benché i tempi fossero strettissimi: del resto realizzare un’ora e mezzo d’animazione, con tutti quei personaggi e tutte quelle situazioni diverse, in meno di un anno è quasi un record. Credo che fra tutti ci abbiano lavorato circa 200 persone. Quindi bravi, è venuta fuori una bella serie, come standard qualitativo: per la grafica, l’animazione, la cura dei dettagli, le musiche, la sonorizzazione – tutto. Certo: per me, la ruvida incisività del tratto delle tavole disegnate si è perduta ma sarebbe stato troppo complicato (lungo e costoso) cercare di mantenerla in animazione, anche volendo. Perciò non è questo il problema.

Perché, c’è qualche problema? Forse la parlata romanesca di Zero? Macché, anzi, Michele Rech (nome anagrafico di Zerocalcare, nda) è bravissimo e perfetto nei molteplici ruoli che interpreta. No. Il problema, dal mio punto di vista, è nella storia.

La serie parte col botto: le prime due puntate sono una cornucopia di gag esilaranti ben integrate nel tessuto narrativo, non sembrano vignette avulse con un tenue legame col procedere della storia, cosa che invece succede sempre più nel seguito. A partire dal terzo episodio la serie comincia a scricchiolare. Non crolla ma si crepa sempre di più. Gag comiche e intelligenti come quelle del garbuglio di cavi elettrici che vive di vita propria sono quasi gratuite nel contesto narrativo; dico quasi perché un addentellato resta pur sempre.

Il vero problema però arriva alla fine, proprio nell’ultimo episodio. Anche se non si tratta di un giallo, non sciuperò la serie a chi non ne ha ancora concluso la visione, e mi limiterò a dire che quest’episodio è verboso e didascalico. Qualcuno dirà che è anche il tema dell’episodio (che non dirò) che lo richiede ma non sono affatto d’accordo. Dirò di più: mi ha ricordato il catechismo. Un catechismo laico e perfino condivisibile, ma che ci sta a fare qui?

Questo finale ospita quel che oggi viene definito uno spiegone che è un quasi-monologo ininterrotto, un calderone alla cui superficie affiorano qua e là polpette psico-socio-sentimentali. Mi verrebbe da dire pietistiche ma sarebbe troppo, sarebbe ingiusto. Ecco, come se, sul finale, invece che lungo questa storia fosse andata fuori dai bordi.

Questa mia opinione sulla serie me l’ero fatta fin dall’inizio, dai primi giorni in cui ero entrato nella produzione e tale è rimasta: e non avrebbe potuto essere altrimenti.

In definitiva, che posso dire? Che è una bella serie e mi è piaciuta abbastanza non solo per la qualità tecnico artistica della produzione; che è divertente e intelligente; che dice cose che in buona misura val la pena che vengano dette; che riesce a farlo senza troppa retorica con un linguaggio in grado di agganciare dai boomers (come me) ai millenials; non sono pochi, come pregi. E poi – e soprattutto – che è un prodotto non per bambini. Eh sì, signore & signori, sappiate che in Italia cartoni animati di regola significa bambini – specie se c’è di mezzo RAI. Ne so qualcosa, ve lo assicuro.

Ci voleva Netflix per portare sullo schermo una serie per adulti.

Finalmente.

L’Uomo nell’alto baccello

In una società dove i mass media sono livellati a uno standard di qualità e contenuti dal quale non ci si può scostare, un colosso del commercio in rete che sta sbaragliando i concorrenti anche fuori dalla rete, grazie allo sfruttamento dei propri dipendenti, mette in scena una produzione apparentemente tratta da un noto libro di uno scrittore di fantascienza di culto.

No, questo è quel che succede oggi, non è il soggetto di The Man In The High Castle, la serie prodotta da Amazon e arrivata alla terza stagione (attualmente in produzione) liberamente tratta dal libro omonimo di Philip K. Dick, apparso in Italia inizialmente come La svastica sul sole e ripubblicato anche col titolo originale de L’uomo nell’alto castello.

Perché ho usato il simpatico gioco di parole tra castello e baccello nel titolo di questo post? Perché per fare questa serie, per come è venuta fuori, non c’era bisogno di ispirarsi, per quanto liberamente, al libro di Dick. Quest’ispirazione infatti è talmente superficiale da risultare più che altro un pretesto di marketing. Il punto non è di quanto una trasposizione audiovisiva di un libro possa – o debba – scostarsi dall’originale ma, in questo caso, c’era davvero bisogno di prendere il libro di Dick per fare questa roba? Se infatti si toglie il titolo, i nomi di alcuni dei personaggi, qualche somiglianza contenutistica e poco altro, non resta che il copione consolidato delle produzioni americane (e americanoidi) che, nel caso delle serie, risulta il consueto brodo allungato di temi da soap opera – a volte più avventurosa, a volte più comica, a volte più tragica o anche mistica.

Se togliamo il fortissimo assunto di base della serie, e cioè l’ucronia rappresentata da un mondo in cui le potenze dell’Asse hanno vinto la seconda guerra mondiale – che è quello del libro di Dick e di altri romanzi di storia alternativa – resta molto poco. Cioè, molto in termini di standard di produzione – effetti speciali di altissimo livello, fotografia professionalmente impeccabile, stile Nazi d’indubbio e funesto fascino visivo – poco per tutto il resto. Un mucchio di temi del libro di Dick, che non è un romanzo d’azione ma casomai più introspettivo, speculativo e disteso, neanche compare o, se lo fa, lo fa di sfuggita, in modo futile, mentre altri vengono ingigantiti o stravolti solo per esigenze (anche ridicole) spettacolari o di sviluppo di una trama da trascinare per il maggior numero di episodi possibile – fato, quest’ultimo, riservato a praticamente tutte le serie di produzione statunitense (si vedano, per esempio, il The Office britannico e la sua rifrittura americana: 14 episodi la prima serie, 201 la seconda).

Ora, anche un bel film come Blade Runner è molto liberamente tratto da un libro di Dick o, meglio, da un suo sottoinsieme: il romanzo sviluppa temi, personaggi e situazioni di natura mistico-politica che neanche compaiono nel film. Ma in questo caso non solo non è stato mantenuto il titolo – che sarebbe cosa da poco – ma soprattutto non si è allungato il brodo (al punto che, per me, il film è persino migliore del libro; cosa che può capitare, anche se di rado, come nel caso di Psycho di Hitchcock rispetto al pur buon romanzo di Robert Bloch che gli sta sotto).

The Man In The High Castle non è una serie peggiore di altre, benché – almeno per me – non memorabile, anche perché, dopo i primissimi episodi, viene fuori la soap-spy-opera, in cui Philip Dick si stempera fino a scomparire per allinearsi alla media delle produzioni americane standard.

Ecco perché, come titolo, mi piace di più L’uomo nell’alto baccello.

mb